“Comunque sono molto bravo, e qui non scherzo, a sottopormi a cose che non mi piacciono.”
“Magnifici Perdenti” – Joe Mungo Reed
La giornata è bellissima. Nonostante siano i primi giorni di primavera, la temperatura è già alta. Sono sempre un po’ teso in queste situazioni, anche se tendo a non darlo a vedere. So che la mia mancanza di confidenza con il mezzo mi penalizza in partenza, e so che devo stare attento a non danneggiare gli altri. So che partirò piano, ma questo non è un problema, perchè andrò piano sempre. Mentre siamo fermi in griglia, in attesa che tutta la macchina si metta in moto, mi torna in mente l’ultima volta che sono stato da queste parti, le colline del piacentino. Sull’ennesimo strappetto avevo sentito un fitta precisa e tagliente al polpaccio, lo sgancio rapido che non si sblocca e l’inevitabile caduta a terra. Un banalissimo crampo, la conclusione di una giornata che era nata storta per mille motivi, dal mancato allenamento, all’alimentazione sbagliata. Ma quello era lo scorso settembre, oggi siamo a marzo e deve essere tutta un’altra storia. Anche se il pensiero dei crampi si affaccerà prepotentemente negli ultimi estenuanti kilometri di salita.
Partiamo e non c’è molto tempo per ragionare. Pronti via, una curva a sinistra, poi una a destra e si inizia a salire. Mi dico che devo stare attento, che devo andare piano perchè sarà lunga. Non tanto per i kilometri, ma per il dislivello. 2000 metri non li ho mai fatti, ma ormai ci siamo. A differenza di altre volte, il gruppo si sgretola in fretta. In salita grandi treni non si riescono a formare e dopo le prime curve già si vede una lunga fila colorata e ondeggiante. Mi rendo conto che la tensione della partenza è del tutto scemata quando mi accorgo di notare i suoni intorno a me: il tlack del deragliatore anteriore che scende appena la strada sale e sale appena la strada scende; il tlick del deragliatore posteriore che in qualche modo cerca la sua posizione ottimale. Sì perchè in fondo si tratta solo di questo: trovare la giusta frequenza, il giusto equilibrio tra forza e fatica, trovare il proprio passo come dicono quelli che la sanno lunga in fatto di salite. E allora faccio anch’io così. Cerco di trovare un ritmo, cerco di sviluppare uno sforzo costante e gestibile. Ogni tanto butto lo sguardo verso il fondovalle, verso i tornanti che ho appena superato e riesco anche ad apprezzare il paesaggio in cui sono immerso. I primi kilometri scorrono abbastanza bene. Si sale e si scende in continuazione, i tratti di piano sono molto pochi e verso la fine tutto questo me lo ricorderò. Al ristoro mi fermo solo qualche minuto, il tempo di bere e mangiare della frutta essiccata e torno in sella. Mi aspetta la discesa verso la statale, le strade non sono bellissime e a scendere sono pessimo, ma vado giù al meglio delle mie possibilità. Arrivati nell’unico tratto di pianura, mi ritrovo insieme ad altri due ciclisti. Ci diamo qualche cambio, mi sembra anche di andare bene. Di riuscire a spingere, di avere un po’ di gamba. Anche quando sono davanti riesco a sfiorare i 40km/h, sono quasi soddisfatto. Un gruppo più numeroso ci raggiunge, sono una decina e ci attacchiamo, restiamo in scia per arrivare alla seconda parte del percorso.
Gli ultimi kilometri, la salita più lunga. Mentre ci avviciniamo cerco di capire a che punto sono, come sono le mie forze. Gambe ne ho ancora? Faccio un paio di cambiate per capire quanto riesco a spingere e ben presto mi rendo conto che insomma, meglio non esagerare. Siamo in fila indiana per una decina di kilometri, poi la svolta a sinistra ci porta di nuovo in mezzo alle colline. Pensavo peggio. La strade sale e mi sembra di stare bene. Il gruppetto rallenta fortemente e così decido di andare avanti. So che manca tanto, ma in quel momento io sto pensando ad un altro momento. Per un attimo mi è venuto in mente che tutto quello che sta tra quell’istante e il 16 di giugno sarà solo allenamento. Sì perchè il grande giorno per me è quello in cui sarò al cospetto del Gigante, là, nel cuore della Provenza. Più faccio fatica oggi, più ci sono possibilità di arrivare lassù, ai 1912 mt.
Quando vedo che sono ai 70 km capisco che la cosa si farà difficile, comincio a sentire ogni singola vibrazione, comincio ad ascoltare ogni singolo segnale che il mio corpo mi invia, che le mie ginocchia mi inviano, che i miei (scarsi) quadricipiti mi inviano. Arrivo agli 80 km e so che mancano gli ultimi 14 di salita. Ho visto l’altimetria più volte e so che non troverò dei muri, ma comincio a guardare troppo spesso il contakilometri e così non passa mai. Faccio un pezzo di strada dietro una maglia della U.S. Legnanese. Ogni tanto passo avanti, poi resto nuovamente indietro. Penso di non farcela. Penso che sono davvero stanco. Poi mi ricordo di Alan Marangoni, delle tante letture, degli articoli di Rouleur, di Zanazzi, di Joe Mungo Reed e del film visto pochi giorni prima, Wonderful Loser. Vedo una curva e il cielo, e penso: ancora fino a lì e poi vediamo. Respiro un attimo, il tempo di tornare a salire e penso: ancora 10 secondi e poi vediamo. Butto un occhio al Wahoo e vedo i kilometri percorsi e penso: ancora 100 metri e poi vediamo. Gli ultimi 14 kilometri li ho fatti tutti così, imponendomi un micro traguardo dopo l’altro. Poi finalmente la strada decide di scendere, un cartello dice “10 km” e allora capisco che ora no, non posso più mollare. Pedalo, freno, riparto, pedalo. La discesa si fa più dolce, si vede Pianello in lontananza. Manca davvero poco. Pedalo. La corona grande, la velocità che aumenta (sempre poco, in assoluto, ma sempre molto per i miei standard). Il computer dice che la media è buona, io comincio a sentire una strana euforia. Al cartello dell’ultimo kilometro smetto di pedalare e mi alzo quasi – quasi, perchè senza mani non so andare – e sento nella mia testa, preciso, fortissimo, Nick Cave che canta “Into my arms, O Lord…”. Rimetto le mani sul manubrio, ultime due curve. Il tipo della U.S. Legnanese mi passa. L’ultimo sforzo. L’arrivo. Le maglie rosse. Visi che conosco bene. Sono tutti già arrivati. Mi aspettano. Taglio il traguardo. Sgancio i pedali e mi piego in avanti. Quasi piango. Per la stanchezza, per la fatica, per la gioia.
Quasi piango.