La macchina da presa inquadra il viso, concentratissimo, in primo piano. Sentiamo il rumore in sottofondo del pubblico, intuiamo che qualcosa sta per succedere. Sembra durare tutto tantissimo, ma nella realtà non saranno più di 90 secondi. Gli occhi dell’uomo della Giant si fanno sempre più attenti, l’inquadratura si allarga leggermente e riusciamo a vedere il suo braccio destro, teso, nella mano una musette con i rifornimenti. Il rumore della folla cresce, si sentono i clacson, le sirene. Stanno arrivando. In un tratto rettilineo, quasi sicuramente a più di 40 km/h, bisogna individuare i propri atleti, consegnare loro i rifornimenti senza che nessuno si faccia male, senza che nessuno rischi la caduta. Consengna il primo, poi prende il secondo sacchetto, e via il terzo, poi il quarto. Missione compiuta. Un gesto che dura poco più di un minuto, che si svolge in 400 metri di strada, nulla se paragonato ai kilomentri di una tappa, al tempo di una tappa del Giro. Eppure da quel gesto può dipendere la vittoria o la sconfitta. “Wonderful Losers”, il film di Arunas Matelis, racconta fondamentalmente questo: i dettagli, i piccoli ingranaggi che contribuiscono a far funzionare quella macchina meravigliosa che è il mondo del ciclismo. I racconti di Paolo Tiralongo, di Daniele Colli, di Svein Tuft partono da storie diverse ma convergono nel medesimo punto. Il ruolo di un gregario, di chi non vince (quasi) mai, di chi arriva sempre dietro perchè si è spremuto fino all’ultima goccia di energia per dare il proprio contributo alla squadra. Sono gli uomini che cadono e si rialzano. Come nella sequenza in cui Giacomo Nizzolo, con il braccio praticamente immobilizzato, si rimette in sella e pedala verso il traguardo. Non parla nemmeno, qualcuno lo aiuta a riallacciarsi il casco e rimonta in sella. Pedala, con un solo braccio sul manubrio, l’altro ferito, forse fratturato, aderente al corpo, alla maglietta di lycra lacerata. Ci sono cadute, ci sono gli attimi convulsi dentro la macchina dei medici. Ci sono dottori che si sporgono per metà fuori dall’abitacolo per medicare un bruciatura da asfalto. Ci sono mini test psicologici per verificare che le conseguenze di una botta in testa non siano state troppo severe. È un film che parla di ciclismo e non solo, che forse – come dice Paolo Tiralongo – racconta più di cultura del ciclismo, che non di come si diventa un ciclista. Le immagini riprese dalla macchina, spesso di notte o in galleria, fanno da punteggiatura in una storia che si snoda tra le vite di atleti molto diversi, con in un comune un unico obiettivo: gli altri. Consapevoli che, benchè nella fila dei 200 partenti, non saranno mai tra quei 5/6 destinati a vincere. Se non in qualche occasione davvero speciale e spesso per concessione di un capitano o un direttore sportivo che decide per il via libera. Il film sceglie di immergersi nelle storie, nel racconto, in ogni momento. Il punto di vista durante le corse, da dentro la macchina, sulla strada, è sempre molto ravvicinato. Sembra quasi di poter toccare quei corpi, di poter sentirne il calore. Si sente il respiro affannato, le grida di dolore. Anche nei momenti più tranquilli, nei momenti del racconto, tutto avviene in un raggio d’azione molto ristretto: i visi dei personaggi intervistati riempiono sempre tutta l’inquadratura, ne cogliamo ogni singola ruga, ogni singolo segno d’espressione. I muscoli, tesi e tirati, durante le sessioni di massaggio. Il respiro in un sacco a pelo all’adiaccio da qualche parte sulle montagne della Norvegia. “Wonderful Losers” parla di passione, di attitudine, di sacrificio, parla di un mondo diverso che non compare molto sotto i riflettori, ma che è l’essenza stessa del ciclismo: uno sport di squadra dove devi accettare che a vincere sia uno solo. E (quasi) sempre non sarai tu.