Più o meno un anno fa salivo su una bicicletta. Non che non ci fossi mai salito prima, ovviamente, ma solo dodici mesi fa l’ho fatto con un’intenzione. Ho iniziato ad allenarmi con un minimo di regolarità, partendo da zero. Lo zero in bicicletta lo si determina con il grado di fatica e dolore con cui riesci a coprire una distanza che un ciclista definirebbe ridicola. Il mio zero si era palesato una domenica mattina di novembre, lungo la Comasina, non oltre i 25 kilometri. Posso dire che da quella domenica sono stati solo micro successi. Si parla in termini infinitesimali, non potrebbe essere diversamente quando si inizia a pedalare a pochi anni dai fatidici 50. I successi in realtà non sono che soddisfazioni, quelle che ti prendi quando fissi un obiettivo che fino a poco tempo prima sembrava impossibile, e riesci a raggiungerlo. Ora, nel ciclismo la percezione di questi obiettivi può rivelarsi un po’ complicata. Qualche giorno dopo quella tragica uscita da 25 km mi capitò di parlare con un ciclista che mi aveva visto quella mattina. Mi disse chiaramente che pensava fossi sul punto di morire di infarto (non disse esattamente così, ma il concetto era questo). Non c’era cattiveria, ma quella visione tipica di chi magari va in bicicletta da 30 anni e si è dimenticato il proprio punto zero, perchè – giustamente – è passato un secolo. Gli obiettivi sono quindi molto diversi ed è praticamente inutile confrontarli. L’unico lato positivo di essere un ciclista in ritardo, molto in ritardo – come lo sono io – è che non ti passa nemmeno per la testa di avere un avversario che non sia tu stesso. Non è pensabile sfidare nessuno, sei troppo concentrato ad ascoltare il tuo corpo, le tue sensazioni, non hai materialmente il tempo di guardare gli altri. Tutto è nuovo, non sai quanta benzina ti rimarrà nelle gambe se fai uno scatto, non sai quanta resistenza potrai mai avere se affronti quella salita ad una velocità più elevata; non puoi saperlo perchè sei inesperto come un ragazzino alle prime armi, ma con 30 anni di troppo. La “gara”, quindi, qualsiasi essa fosse, sarebbe stata solo ed esclusivamente con me stesso. Ecco, in un anno, posso dire che le gare in cui mi sono cimentato le ho vinte tutte. Dal basso dei miei piazzamenti, sempre tra gli ultimi 10, ma sempre in bicicletta. Partito ed arrivato in fondo. Quando alla prima granfondo mi hanno superato 3000 ciclisti perchè inesperto di partenze in griglia, nel caldo torrido delle Marche covando una bronchite, quando tra i colli piacentini sono finito a terra in preda ai crampi, prendendo la pioggia per tutti i 73 kilometri che dividono il Vigorelli e il Ghisallo. E anche quando siamo andati a far visita al grande Fausto a Castellania, o quando siamo andati verso il mare passando per il Turchino. Infatti mi chiedevo quando sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto sottostare alla sconfitta, quando avrei dovuto prendere atto che no, non ce l’avevo fatta. Perchè capita, capita sempre e – credo – capiti a tutti. Persino ai professionisti, addirittura in mondovisione. Vuoi che non capiti a me?
Tempo fa avevo letto in alcune interviste proprio di questo momento. In quel periodo il mio massimo sforzo in ambito ciclistico era saltare dal divano agitandomi forsennatamente per “partecipare” ad un attacco di Thomas Voeckler al Tour de France. Ancora non potevo comprendere fino in fondo ma, già all’epoca, pensai che fosse un’immagine perfetta.La domanda di rito era più o meno formulata così: “Quando hai incontrato L’Uomo col Martello?”. Ognuno ovviamente aveva avuto il suo incontro. Chi tra i magnifici scenari del Gavia o del Galibier magari, e chi invece su anonimi strappi in Brianza che avevano piegato la volontà e bruciato irrimediabilmente i quadricipiti. Un uomo sulle tue spalle, mentre pedali, che riesce solo a darti martellate sulla testa: quale modo migliore di rappresentare il disagio, la fatica, la stanchezza e il dolore? Oggi, finalmente, posso dire anche io di aver fatto la sua conoscenza. Prima si è fatto timidamente intravedere qui:
Ma forse essendo la prima volta, non so, non ha voluto essere troppo invadente e si è limitato a darmi solo due schiaffoni (il primo subito all’inizio, ché nemmeno sei partito e SBAM…in piena faccia; il secondo quando pensi “ok mi sono ripreso, riprendo fiato”…SBAM altra botta), in qualche modo – non sono nemmeno io come – sono riuscito ad incassarli senza andare KO. Rifiato, mangio, bevo ma mi rendo subito conto che qualcosa si è spezzato. Qualcosa si è irrimediabilmente insinuato tra i miei muscoli e il mio cervello. Mentre scendo lungo la discesa provo a pensare positivo, che è passata, che anche questa volta potrei rimandare l’incontro. Torno in pianura, cambio rapporto e quasi facendo finta di nulla butto l’occhio sulla cassetta dei pignoni. Non c’è molto da dire, quei pignoni sono troppo grandi, quei denti troppo numerosi per essere quelli giusti. Sposto la leva ed è come se qualcuno si fosse seduto sulla mia coscia. Torno indietro, inutile insistere. Intanto vado così, andiamo avanti ancora un po’. Magari non torna, magari si stanca. Ce ne sono tanti come me in giro, dopotutto.
Al semaforo a sinistra, poi ancora a sinistra. Mi sembra di aver visto qualcuno che conosco? Impossibile, io da qui non sono mai passato. Eppure…Un’altra curva, la strada comincia a salire ed eccolo lì, proprio dove speravi di essere lasciato solo. Ora ha abbandonato la timidezza, si è messo comodo comodo sulle mie spalle e martella sulla mia testa come un fabbro. Lui non molla, ma io ne ho già incassati di colpi e magari riesco a incassare e rispondere ancora. Illuso. Questa volta ha deciso che no, non mi lascerà andare tanto facilmente, gli basta un colpo secco, lì all’inizio e sono all’angolo.
Non c’è più niente da fare. Non ci sono più energie, si è spento tutto. La metaforica spugna è tutta racchiusa in un suono, il “tlac” della tacchetta che si sgancia dal pedale. Poi è solo testa bassa, finchè spiana un po’. Allora riesci anche a risalire in sella, ma è solo un prolungamento dell’agonia, perchè ormai lui sa tutto di te e non te ne farà passare una. Ti basta allungare lo sguardo per capire che no, non è finita. Dopo la sconfitta c’è l’umiliazione. Ancora un “tlac”, nel silenzio più assoluto, finchè mestamente raggiungi la tua meta.
E così, mentre torni verso casa, un solo pensiero ti resta in testa: io qui ci torno. Certo che ci torno.