“[…] e le Sei Giorni. A Montreal si correva nello stadio dell’hockey, due rettilinei e due virgole come curve, lì s’imparava alla svelta, e chi non imparava, volava via. La prima sera me lo vedo ancora, De Lillo, che volava sopra i tavoli.”
Giovanni “Vanni” Pettenella
(da un articolo di Marco Pastonesi)
Non sono più gli anni in cui il sabato sera in TV andavano in onda le sfide di
Maspes e Gaiardoni. Non c’è più quell’alone mitico che circondava le grandi
kermesse su pista. Ma una volta che rimetti piede dentro un velodromo per
una Sei Giorni, non puoi non rimanere affascinato. È un concentrato di emozioni, il continuo susseguirsi delle gare non ti dà tregua, c’è sempre qualcosa da vedere e da vivere. Dalle tribune si ha tutto sotto controllo. Si vedono le gare e si vedono gli atleti in attesa, si assiste agli sprint e ai momenti di pausa, quasi senza perdere nemmeno un particolare. Un attacco, un allungo, a volte anche una caduta, un contatto un po’ al limite. Si sperimenta la velocità, la si sente quasi fisicamente, la vedi nelle gambe degli atleti e si pensa solo dopo a quanto sia folle visto che a generarla è la sola forza delle gambe. Poi ci sono le gare. C’è la tattica e la strategia, c’è la potenza e l’agilità. Le gare più rapide, le gare più lunghe. Grandi momenti di concentrazione e grandi momenti di concitazione. Non ci si annoia mai. Protagoniste assolute le biciclette, con il loro aspetto avveniristico, taglienti come lame affilate, potenti e nervose come purosangue, senza freni, inarrestabili. E i pistard sulla linea di partenza, con gli sguardi concentrati, le smorfie di fatica che modificano il volto, tanto sono duri da spingere quei rapporti lunghissimi nei primi metri. Un mondo che ha perso la luce dei riflettori, ma che meriterebbe di ritrovarlo.